Parafrasando l’Henry Hill di Quei bravi ragazzi, Jordan Belfort potrebbe tranquillamente affermare che sin da quando ricorda, ha sempre voluto essere ricco. Perché Jordan, in fondo, è solo l’ennesima variante di un gangster: non si muove nelle strade di Brooklyn ma tra i grattacieli scintillanti di Wall Street, non impugna una rivoltella bensì una penna e una cornetta telefonica, eppure il vortice di ambizioni fameliche e pulsioni autodistruttive in cui precipita, come accade spesso agli antieroi di Scorsese, è sostanzialmente il medesimo. The Wolf of Wall Street, tratto dall’omonima autobiografia di Belfort, è la cronaca di un impero costruito sull’illusione del progresso finanziario, sull’utopia del salto sociale e sulla celebrazione di una ricchezza volatile, impalpabile come aria, pronta a dileguarsi nell’ossessione degli investimenti compulsivi, stando a quanto dichiara limpidamente Matthew McConaughey (attore rinato, non c’è che dire) nel suo monologo all’inizio del film.
Il branco capeggiato da uno strepitoso Leonardo Di Caprio è all’apice della catena alimentare, proprio come i gangster della trilogia della mafia, e il destino che li accomuna è molto simile: cadendo goffamente sotto il peso dei loro eccessi, provocheranno la rovina di tutto l’impero. D’altra parte, è proprio nell’eccesso che Scorsese trova la chiave interpretativa della vita di Belfort, e più in generale della decadenza morale, fisica ed economica degli yuppie. The Wolf of Wall Street è un flusso ininterrotto di sequenze parossistiche, un ciclone edonistico di cocaina, sesso spiccio e prostitute, dove il corpo (non soltanto femminile) viene reificato in ossequio alle logiche del machismo e della fallocrazia. Un folle teatrino quotidiano basato sullo spreco e sull’ostentazione del denaro, sul delirio allucinato e sulla frode finanziaria: i broker della Stratton Oakmont, la compagnia fondata da Belfort, si abbandonano alla soddisfazione degli istinti basilari, mentre manipolano il mercato azionario e rifilano titoli di carta straccia ai propri investitori. La loro cattiva fama, nei folgoranti anni Novanta, è direttamente proporzionale al loro successo.
Scorsese carica il film di una fisicità dirompente, coreografando uno spettacolo di oscenità e perversioni che disgustano, saturano gli occhi e paradossalmente divertono, poiché i codici adottati dal regista sono quelli del grottesco e della commedia satirica, peraltro arricchita dai dialoghi brillanti dello sceneggiatore Terence Winter (che per Scorsese ha già ideato Boardwalk Empire). Molte soluzioni narrative si rivelano assai spassose, e sono destinate ad assurgere istantaneamente alla fama di cult; valga per tutte la sequenza in cui Belfort e il suo amico Donnie sperimentano gli effetti del Lemmon Quaalude, un farmaco assunto come stupefacente: oltre a dimostrare la bravura di Di Caprio e di un sorprendente Jonah Hill, la scena è esilarante per la costruzione delle inquadrature e la scelta dei tempi comici, ma risulta efficace anche grazie al contributo dell’immancabile Thelma Schoonmaker, montatrice di rara finezza. Nevrotico e ipercinetico, il montaggio sembra accusare gli stessi effetti che le droghe hanno sulla mente e sul corpo dei protagonisti, favorendo un clima vertiginoso che non può lasciare nessuno spazio per la redenzione, né tantomeno desidera farlo: l’epopea di Belfort è visceralmente narcisistica, troppo asservita alle gioie del “dispendio” (di energie, soldi, affetti) per prestare ascolto ai sensi di colpa, e Scorsese non ha alcun interesse a illuminare una catarsi che suonerebbe falsa e pretestuosa.
Così, escludendo ogni moralismo, The Wolf of Wall Street disegna una traiettoria in cui l’ascesa e la caduta appaiono altrettanto splendenti, e in cui il livello di cinismo si mantiene sempre costante, finale compreso. Lo sguardo vuoto delle potenziali prede, in effetti, suggerisce una chiusura sconsolata e disillusa: il futuro è nelle mani sbagliate, o forse – più semplicemente – corre disperato senza controllo, come un treno lanciato verso il precipizio.
Un film da non perdere.
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